Mi sono presentato al lavoro in abiti comodi, come mi avevano suggerito. Indossavo – anche in funzione scaramantica – la mia tenuta per le camminate in montagna: pantaloni larghi multitasche e scarponcini con suola profilata antiscivolo e puntale rinforzato. Ho seguito le istruzioni lasciando nell’armadietto il cellulare, le chiavi dell’auto, la scatola di mentine, il portafoglio, il coltellino multiuso svizzero che è mio inseparabile compagno. Era vietato portare nello stabilimento qualsiasi oggetto personale a eccezione dell’orologio.
L’appuntamento era presso la batteria dei tornelli d’ingresso, con dieci minuti d’anticipo rispetto all’orario d’inizio del turno: ci sarebbe stato un briefing durante il quale ci avrebbero illustrato le procedure operative. La cosa mi aveva in parte tranquillizzato, in parte deluso. Se si trattava di un lavoro che poteva essere spiegato in così poco tempo, non c’era nessuna possibilità di mettersi in luce e chiunque di noi avrebbe potuto essere sostituito in qualsiasi momento.
Il coach incaricato di illustrare a me e una dozzina di neoassunti il compito che gravava su di noi per le successive otto ore era vestito in giacca e cravatta e calzava scarpe di cuoio fresche di lucidatura. Mi ha fatto venire in mente Michele, che in quel momento doveva aver dismesso lo stesso genere di abiti per indossare il pigiama. Il giovanotto aveva nella mano destra una specie di pistola con display; il cosiddetto scanner: un lettore di codici a barre integrato a un indicatore di prelievo. Sul visualizzatore comparivano due codici, composti da una lettera seguita da 3 numeri. Il primo codice indicava la corsia di stoccaggio, il secondo il prodotto da prelevare e collocare nel carrello. Sotto – per completezza – compariva la descrizione dell’articolo. Il principale errore da evitare era perdere tempo nell’osservazione dell’oggetto – bisognava tenere a bada la curiosità. Era sufficiente puntare il lettore sul codice a barre e una lucina verde avrebbe confermato se era quello giusto. Pochi secondi dopo – il tempo necessario per depositare il prodotto nel cesto del carrello – sarebbe comparso sul display il doppio codice dell’articolo successivo. Le indicazioni su quando consegnare il carico alla catena d’impacchettamento e prelevare un carrello vuoto non erano lasciate alla libera iniziativa: sarebbero arrivate in automatico sullo scanner, grazie a un software che teneva conto delle dimensioni del cesto, del volume e della forma degli oggetti prelevati. L’avvento tardivo del segnale denotava una scarsa diligenza nello stivaggio.
Al termine dell’esposizione il coach ci ha invitato a studiare un’enorme cartina sulla parete alle nostre spalle.
“È la mappa dell’area di stoccaggio, vi suggerisco di guardarla con attenzione per capire quale sia il criterio di numerazione delle corsie. È vero che lo imparerete soprattutto sul campo, ma è opportuno che ciò avvenga il più in fretta possibile. Un avvertimento: non rallentate il lavoro degli altri chiedendo informazioni su dove si trovi la scaffalatura da raggiungere. Nessuno vi aiuterà. Ogni carrello è munito di un delay-sensor collegato al sistema di monitoraggio della produttività e finireste per arrecare un danno a voi e all’incauto buon samaritano”.
Un giovane mingherlino dal fisico nervoso ha chiesto a chi avremmo dovuto dare conto del nostro rendimento.
Risposta: “Al più attento e inflessibile direttore di stabilimento che vi potesse capitare. Un manager americano in grado di controllare i movimenti di ogni singolo lavoratore: si tratta di Mister Al, che ha nel suo cognome composto – Go Ritmo – l’invito ad andare più veloci che potete. Era una battuta. Adesso passate attraverso il metal detector e dateci dentro. Il peggiore tra di voi – colui che non si dimostrerà in grado di diventare un vero picker – sarà licenziato a fine giornata”.
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