Ho stimato che il lavoratore tipo percorre in media dai quindici ai venti chilometri al giorno, raggiungendo picchi di ventisette nel cosiddetto Black Friday – il venerdì nero che più nero non si può. È il giorno dell’anno in cui l’azienda pratica sconti speciali e i consumatori – l’etnia che ha prevalso su tutte le altre – si accalcano nel negozio virtuale per accaparrarsi articoli di cui nel più dei casi non sapranno cosa farsene. Anche se il tragitto percorso in un turno varia poco da un picker all’altro, la camminata non è uguale per tutti. Ogni corpo ha peculiarità che gli sono proprie e siccome le prestazioni richieste da Mister Al sono al limite delle capacità di ciascuno di noi, chiunque faccia questo lavoro mette a punto una tecnica specifica per massimizzare la velocità. Quello che funziona con tizio non va bene per caio. Non c’è modo di copiare o prendere spunto, ognuno deve trovare la propria esclusiva andatura. Non si tratta solo di raggiungere una determinata velocità di crociera, ma di farlo spingendo o trainando con una mano il carrello mentre l’altra regge lo scanner. Nessuno di noi è in grado di distinguere il volto di un collega: i nostri sguardi sono inchiodati sul display e sulle targhe d’identificazione di corsie, scaffalature e articoli; non così per la camminata, di cui non ce ne sono due simili. La tecnica di marcia è inconfondibile: è ciò che fa di noi degli individui: è al tempo stesso fisionomia, voce, odore, carattere e molto di più. Il numero di elementi che connotano una camminata sono così tanti che è possibile riconoscerla a colpo d’occhio. È sufficiente osservare il modo di poggiare il piede destro – diverso dal sinistro; la velocità con cui la caviglia induce il tallone a staccarsi dal pavimento; l’ampiezza della rotazione del ginocchio sul piano verticale longitudinale; le deviazioni dell’asse del bacino dovute all’asimmetria del sistema manovratore-carrello; il dislivello tra le due spalle; la torsione della spezzata composta dalle vertebre cervicali; il rollio della testa; il beccheggio del naso. E non è tutto.
Ogni specifica camminata risente della fatica accumulata nei giorni precedenti e si modifica per mantenere il ritmo, chiamando in causa muscoli meno appropriati ma più tonici. Così come riconosciamo un volto familiare anche al mutare delle espressioni facciali, nella camminata risaputa di un altro picker siamo in grado di cogliere le variazioni dovute alla stanchezza e indovinare – senza bisogno di consultare il calendario – quale giorno della settimana sia. Dal brio del lunedì si passa alla compostezza del martedì; dai primi cenni di strascicamento del mercoledì alla semi-zoppia del giovedì; per registrare, nelle ultime ore del turno di venerdì notte, la mobilitazione di muscoli o parti del corpo che di norma assolvono a tutt’altra funzione: qualcuno avanzerà a colpi di mandibola; un altro darà l’impressione di sfruttare la forza aspirante delle narici; un giovane traboccante testosterone si affiderà agli scatti inconsulti del bacino; mentre una ragazza pettoruta ostile al reggiseno chiamerà a raccolta l’inerzia dei propri seni, scagliandoli in avanti grazie ai guizzi sincopati dello sterno.
Muscoli, tendini, articolazioni sono messi senza dubbio a dura prova, ma quelli che pagano il prezzo più alto sono i piedi, i quali non possono essere surrogati da altre parti del corpo se non a condizione di mettersi carponi. Il calcolo delle sollecitazioni è elementare: il passo medio di un picker è di settantacinque centimetri; venti chilometri di percorso equivalgono a circa ventisettemila passi da ripartire tra i due piedi; se consideriamo un peso medio di settanta chilogrammi – maggiorato di cinque per il peso del carrello al traino o in spinta – ogni singolo piede è sottoposto in otto ore di lavoro a un carico cumulativo di mille tonnellate. È come se a un elefante del peso di cento quintali, che se ne stia ben piantato sulle quattro zampe a mulinare la proboscide, gli si impilassero alla chetichella sulla groppa centonovantanove suoi consimili. Siamo sicuri che le zanne in avorio rimarrebbero immacolate anziché tingersi del sangue del documentarista?
Senza contare che il nostro corpo non è stato nemmeno progettato per la posizione eretta. Poveri noi? Poveri piedi!
Capite la ragione per cui non ho esitato a seguire il suggerimento elargito dal mio vicino di armadietto, una mattina che mi ha visto rientrare negli spogliatoi come se stessi camminando scalzo sui carboni ardenti?
Grazie a lui ho preso l’abitudine di dormire con la testa dal lato dei piedi, tenendo i talloni poggiati sulla testiera del letto o addirittura sulla parete. Si tratta di una tecnica di mitigazione del disagio plantare che sfrutta i principi dell’antigravità.
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