“Costui” attacca un sommelier, in una lingua a me ignota che l’auricolare si premura di tradurre in tempo reale, “è uno champagne che deriva dalla miscelazione di trentasette uve, i cui acini, partiti in sei categorie predefinite di sferoidi – tre oblati e tre prolati – sono stati sottoposti a vagliatura in base al fuso granulometrico di Vinessy. Esse (le uve) provengono da vitigni connotati da una rugosità corticale non inferiore a 3 nell’indice Melson, con un’altezza media compresa tra i 62 e i 113 centimetri, coltivati (i vitigni) in aree geografiche ove si registrino: direzione prevalente del vento da sud-ovest, forza media pari a 1,81 nella scala Beaufort modificata, gradiente termico tardo primaverile che ricada nell’intervallo di tolleranza dello Spallanzani.
La raccolta (degli acini) è stata effettuata da ragazzi di sesso maschile con tendenze omosessuali – comprovate da una maggiore concentrazione ipotalamica di 5-alfa-reduttasi rispetto a quella dell’aromatasi – nei giorni dispari di una settimana di luna calante, con la mano sinistra per i destri e la destra per i mancini – di modo che l’attenzione al movimento fosse massima per minor naturalezza; il grappolo è stato spiccato con uno scatto dal basso verso l’alto, compiuto da un avambraccio i cui valori di accelerazione assoluta al culmine e angolazione rispetto al gomito fossero compresi nel perimetro di Kraus. Prima di autorizzare i raccoglitori a insinuarsi tra i filari, i loro polpastrelli sono stati mantenuti a bagnomaria per ventitré minuti in una miscela di acqua frizzante, limone e menta piperita; quindi asciugati, senza frizionare, su teli di cotone grezzo color panna, tessuti su telai di legno da donne in menopausa che non abbiano mai fatto uso di tintura per capelli.
Sorvolando sui passaggi intermedi che potete approfondire compulsando l’Enciclopedia della macinatura in tredici volumi – di cui mi pregio d’averne scritti in un raptus ventisei – sappiate che questo vino ha riposato con inclinazioni variabili in relazione alla posizione degli astri per due lustri, tre anni, cinque mesi, otto giorni, tredici ore e ventuno minuti – in ossequio alla successione di Fibonacci – all’interno di botticelle di vetro di Murano soffiato da un diplomato in trombone, con l’intradosso (della botticella non del diplomato) rivestito da un’alternanza di listelli di rovere e acciaio inox. Il travaso è avvenuto tra le cinque e le sei antimeridiane, in una giornata di calma piatta caratterizzata da un valore di eliofania relativa superiore al 66 per cento, per il tramite di una pipetta di prelievo che ha deposto una ad una, in ciascuna bottiglia, 14.999 gocce.
Il colore non può essere dato per scontato, poiché risente di ora, latitudine, luminanza ambientale, colore dell’iride dell’osservatore, declinazione magnetica e può spaziare dal giallo scuolabus con venature camoscio delle dolomiti al solidago sovrapposto all’uovo di pettirosso; dal lavanda pallido semincarnato prugna all’eliotropo con riflessi acquamarina; passando per il bianco di titanio con screziature catrame di Dubai, l’écru sabbiato, il grigio asparago alonato pesca gialla, il salmone d’allevamento damascato.
Al mattino il bouquet è ampio, striato, a tratti evanescente, frigido ma convulso, con retro-aromi d’incenso ghibellino trafitto da rapsodici rigurgiti fognari; a mezzodì si presenta rinfrescato da episodiche brezze d’altopiano coltivato a tabacco o abbrutito da sentori di sudore d’alpaca terrorizzato; nel pomeriggio, soprattutto con regressioni barometriche sotto la soglia di Goring, esala fragranze tipiche del Bosforo durante il solstizio; la sera non lesina tinte olfattive medie, e mignole, capaci di evocare i retrobottega del porto di Chennai nel periodo dei monsoni; per non tacere del notturno effluvio di forfora su guanciale di seta nera mescolato all’afrore di petali di rosa rossa marci pestati in un mortaio di basalto.
La struttura è prefabbricata; l’ossidazione ai minimi storici. I polifenoli si contano sulle dita di una scapola. Il corpo è astrale. La geometria euclidea con derive booleane. Riesce a essere corto coi miti e persistente coi malvagi. Rotondo, a intermittenza. Il residuo di zuccheri è volubile e risente del moto di precessione del calice intorno al gambo: può risultare dolcemente secco in senso orario o aridamente zuccherino nel contrario, sempre e comunque abboccato amabilmente. Uno champagne, diciamolo pure, dai tratti tronco-conici. Umorale e instabile. Sempre e comunque circospetto. È grasso, quando non si presenta anoressico; vellutato come pietra pomice; elicoidale. Può astringere e muovere al prolasso; la stessa etichetta risulta tonica nella cornice ma flemmatica nella descrizione. Uno champagne alla fin fine assurdo, ma non irrazionale”.
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