Alle prime luci dell’alba, stramazzato sul sedile guidatore, ho capito perché ci avevano dato l’indicazione di parcheggiare con il muso dell’auto già rivolto verso il corsello di transito. Avevo la muscolatura così indolenzita da non essere in grado di torcermi su me stesso per guardare oltre il lunotto posteriore e di riuscire a gestire al meglio i pedali; senza contare che gli occhi erano affaticati per colpa dei neon, del display e del continuo sforzo di focalizzazione di numeri corsie e codici prodotto. Fare marcia indietro in quelle condizioni sarebbe stato un rischio per sé e per gli altri. Ho spento l’auto tre volte prima di riuscire a indirizzarla verso l’uscita.
Sulla strada del ritorno ho guidato in stato di trance. Ci si sentiva così al risveglio da un elettrochoc?
Avevo appeso le mani alla parte bassa dello sterzo, che ruotavo in senso orario e antiorario facendolo scorrere tra le dita con brevi scatti millimetrici. Il servosterzo e lo schienale imbottito hanno guadagnato in un balzo il primo e il secondo posto nella classifica delle invenzioni memorabili. Non avevo dubbi che se non fossero esistiti nessuno di coloro che avevano affrontato quella prima giornata di lavoro sotto la minaccia del licenziamento in tronco a fine turno, sarebbe stato nelle condizioni di tornare a casa propria. Né potevo escludere che si trattasse di una sindrome generalizzata e tutti i picker, anche quelli più temprati, se non avessero potuto contare su quei due dispositivi, sarebbero stati condannati alla paralisi motoria e al morire d’inedia nell’abitacolo della propria auto. Chissà che il futuro non avesse in serbo la nascita di questa nuova figura di lavoratore usa e getta: un prestatore d’opera che avrebbe lavorato un solo giorno, prima di essere conferito nella discarica dei disoccupati a vita.
Ho impiegato un’ora e mezza per rientrare a casa; ricevendo così tanti insulti in corrispondenza di ogni singola rotatoria, da pervenire alla conclusione che “coglione” fosse un nome di battesimo come un altro. Una volta nel box-doppio – che mio figlio aveva avuto la gentilezza di lasciare con la serranda alzata – sono sceso dall’auto al prezzo di dolori lancinanti, mi sono trascinato verso l’ascensore e ho guadagnato di soppiatto la camera da letto nella speranza di non essere intercettato da Mecchenzia.
Dire che ho preso subito sonno sarebbe un eufemismo: ho letteralmente perso i sensi come se m’avessero dato una botta in testa. Non abbastanza forte da impedirmi di sognare.
Ho sognato di essere giovane, al mio primo giorno di lavoro in una fabbrica e che il capo squadra fosse intento a spiegarmi le mie mansioni. Nei panni del protagonista del sogno lo ascoltavo come se mi stesse dicendo cose assolutamente normali, ma in qualità di sognatore ero perplesso. Ciononostante ho adempiuto ai miei obblighi contrattuali: mi sono sdraiato su un nastro mobile e ho lasciato che mi trasportasse verso una bocca metallica. Mi sono ritrovato all’interno di un cilindro, alla mercé di un certo numero di bracci meccanici che mi hanno spogliato alle spicce. Sono uscito dal tunnel nudo e supino proseguendo il mio viaggio sul nastro, che si snodava lungo l’intero stabilimento. Gli operai e le operaie dei vari reparti facevano il possibile per non guardarmi, confermando che mi avevano visto eccome. Ho avuto l’impressione che a condizionarli non fosse senso del pudore, ma un sentimento di pietà per qualcosa di cui dovevo essere all’oscuro.
La fabbrica era invasa dai tipici rumori delle officine meccaniche, che conoscevo alla perfezione potendo individuare per ognuno di essi quale macchinario l’avesse prodotto. Erano rumori familiari ma non per ciò amichevoli. Uno in particolare era più sinistro degli altri: il flebile ma irredimibile gemito delle calandre. Era l’attrezzatura che terrorizzava tutti. Ogni operaio, presto o tardi, finiva per immaginare cosa avrebbe comportato finire nelle grinfie di una delle macchine con cui aveva a che fare abitualmente: c’era chi si prefigurava come il tornio avrebbe ridisegnato il profilo della propria mano o la pressa l’avrebbe appiattita raddoppiandone le dimensioni; chi immaginava come la punzonatrice l’avrebbe trapassata da parte a parte e la cesoia separata dal polso in via definitiva dal resto. Erano incidenti gravi ma non irreparabili. Solo la calandratrice era in grado di sfruttare la cattura della mano per appropriarsi di tutto il corpo, restituendolo, dopo il passaggio attraverso i rulli, nella forma di una passatoia di pelle lunga venticinque metri. Tornando al sogno: quello che sentivo in fondo all’ultimo tratto di nastro era proprio il sinistro mugolio di una calandra. Peccato che non riuscissi a muovere un singolo muscolo: erano tutti così pesti da rifiutare di contrarsi. Mi sono svegliato di soprassalto un attimo prima che la coppia più avanzata di cilindri mi mordesse gli alluci. Ero salvo fuori dal sogno, ma paralizzato anche nella realtà.
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