Nell’ottobre del 2021 Mimmo Lucano viene condannato a oltre 13 anni di reclusione. È il triste epilogo di una vicenda per molti versi entusiasmante che comincia alcuni decenni prima con uno sbarco di curdi sulle coste calabresi. La storia narrata in Una mummia per Mimmo è ambientata tra la spiaggia di Riace e la più importante sala espositiva del museo archeologico di Reggio Calabria; vi s’intrecciano i destini di Mimmo il Curdo, Nefertari – la più amata tra le mogli di Ramesse il Grande, un giovane pescatore che è stato testimone del ritrovamento dei Bronzi di Riace, nonché la celebre coppia di statue, le quali si ritroveranno a essere loro malgrado tra i protagonisti di un road-movie dove la rabbia, la frustrazione e il desiderio di rivalsa per la condanna inflitta a Mimmo il Curdo li spingeranno verso un epilogo inaspettato.
In bilico tra la farsa e la tragedia, strutturato per metà come monologo e per l’altra come pièce teatrale, Una mummia per Mimmo non propina nessuna soluzione pre-confezionata a vantaggio degli opposti schieramenti di colpevolisti e innocentisti, costringendo piuttosto il lettore-giurato a fare i conti con se stesso e con ciò che rimarrà delle proprie convinzioni.
Dal prologo:
“Voglio aggiungere un’ultima cosa prima di chiudere questa parentesi: la vostra giustizia non ha alcun fondamento razionale; nella migliore delle ipotesi è un surrogato della vendetta e ha lo scopo di interrompere la catena delle ritorsioni. Allora io vi domando: se la giustizia è questo – un surrogato della vendetta per ripagare chi ha subito un torto – nel caso in cui un uomo non abbia fatto del male a nessuno e non ci sia da estinguere alcuna sete di vendetta: per quale ragione quell’uomo deve pagare? Non vi sembra un esercizio di pura cattiveria: un praticare il male per il piacere di farlo? Se così stanno le cose, chi ha subito la condanna non avrebbe il diritto – lui sì – di essere vendicato?”
Con queste parole larvatamente minatorie comincia la testimonianza di Nefertari in quello che può essere considerato il processo del secolo, che ha visto alla sbarra, per la prima volta nella storia del diritto, un imputato reo di non aver commesso il fatto. La sua colpa è proprio quella di essere innocente, con l’aggravante di aver agito a fin di bene; una fattispecie – lo scopriremo nel concitato dialogo notturno tra un magistrato e un filosofo greco in libera uscita – che nulla ha a che vedere con il sistema giudiziario:
“La giustizia non si occupa del bene. Mi sorprende che un sofista come lei assegni così poco peso alle parole. Provi a scaricare il codice penale e attivi la funzione “trova” dopo aver digitato la parola “bene”; l’esito della ricerca sarà “nessun risultato””.